Avvocato
Andrea Cova

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Morte del feto

Lo Studio dell'Avvocato ANDREA COVA è specializzato in malasanità ed assiste i danneggiati gravi da parto consentendo loro di ottenere il giusto risarcimento.

La morte prenatale di un figlio rientra nel novero delle drammatiche evenienze che si possono determinare in conseguenza di un errore medico, iscrivendosi nel più ampio contesto di quelli che vengono considerati “danni da parto per malasanità“.

In termini giuridici si può parlare di “nascita” al verificarsi di due condizioni concomitanti:
1. il distacco naturale o indotto dal corpo materno
2. la manifestazione di vita autonoma del frutto del concepimento attraverso il respiro.

La nascita, quindi, si fa coincidere temporalmente con il primo atto respiratorio e ad essa si correla l’acquisizione della qualifica di neonato da parte del soggetto nato vivo; di conseguenza, qualora si verificasse il suo decesso anche dopo pochi istanti dalla nascita, tale evento andrebbe comunque inquadrato quale “morte del neonato“.
Il concepito che, invece, sia uscito o sia stato estratto dal grembo materno e non abbia respirato (in caso di dubbio è dirimente l’analisi del polmone per rinvenirvi tracce di ossigeno), si considera nato morto e viene ancora qualificato come feto: tale evento quindi sarà inquadrato giuridicamente quale “morte del feto“, assimilando tale situazione a quella del decesso intrauterino.
La morte del feto nel grembo della madre, provocata dalla negligenza e imperizia della condotta dei sanitari, è “un vero e proprio danno da perdita del rapporto parentale” in quanto anche la tutela del concepito ha fondamento costituzionale (artt. 2 e 31, secondo comma, Cost.; Corte costituzionale n. 27 del 1975), allo stesso modo in cui è perdita del rapporto parentale la morte del neonato.

Ne consegue che il relativo pregiudizio rileva nella sua duplice, e non sovrapponibile dimensione morfologica della sofferenza interiore e in quella, ulteriore e diversa, che si rifletta in termini dinamico-relazionali, sui percorsi della vita quotidiana attiva del soggetto che l’ha subita.

“Il vero danno, nella perdita del rapporto parentale, è la sofferenza, non la relazione. È il dolore, non la vita che cambia, se la vita è destinata, sì, a cambiare, ma, in qualche modo, sopravvivendo a sé stessi nel mondo”.

È quanto sostenuto in una sentenza di estremo rilievo, la n. 26301/21, depositata il 29 settembre 2021, pronunciata dalla terza sezione civile della Cassazione su uno dei purtroppo non infrequenti casi di morte intrauterina causata da malpractice medica da cui era scaturita una causa.

Precedentemente, la Corte di Cassazione considerava il danno subito a seguito della morte del feto come semplice perdita di una relazione affettiva potenziale (che, cioè, avrebbe potuto instaurarsi, nella misura massima del rapporto genitore-figlio, ma che è mancata per effetto del decesso anteriore alla nascita), ma non anche di una relazione affettiva concreta sulla quale parametrare il risarcimento all’interno della forbice di riferimento” delle tabelle di Milano per il danno da perdita del rapporto parentale.

La morte fetale durante una gravidanza avanzata può avere cause materne, placentari, fetali oppure genetiche: 

Materno

Disturbi trombotici acquisiti

Diabete mellito non compensato

Obesità patologica (indice di massa corporea ≥ 40 kg/m2)

Preeclampsia o eclampsia

Sepsi

Abuso di sostanze

Uso di tabacco

Malattie tiroidee

Traumi

Placentare

Abruptio placentae

Infezione intra-amniotica (corioamnionite)

Emorragia feto-materna

Trasfusione da gemello a gemello

Patologie del cordone ombelicale (p. es., prolasso, nodi)

Insufficienza vascolare utero-placentare

Vasa previa

Fetale

Trombocitopenia alloimmune

Anomalie cromosomiche

Anemia fetale alloimmune o ereditata

Infezione

Importanti malformazioni congenite (in particolare del cuore o del cervello)

Idrope fetale non immune

Malattie monogeniche

Complicanze

Se un feto muore in tarda gravidanza o vicino al termine ma rimane nella cavità uterina per settimane, si può verificare una coagulopatia da consumo o anche coagulazione intravascolare disseminata.

Diagnosi della natimortalità

La natimortalità può essere diagnosticata con Valutazione clinica e Test per identificare la causa.

La diagnosi di natimortalità è clinica.

I test per determinare la causa della natimortalità comprendono i seguenti:

- Esame generale del feto nato morto (p. es., aspetto fisico, peso, lunghezza, circonferenza cranica)

- Cariotipo fetale

- Emocromo con formula materno (per evidenziare l'anemia o la leucocitosi)

- Test di Kleihauer-Betke

- Screening diretto per disturbi trombotici acquisiti, inclusi test per anticorpi antifosfolipidi (lupus anticoagulante, anticardiolipina [IgG e IgM], anti-beta2 glicoproteina I [IgG e IgM])

- TORCH test (toxoplasmosi [con IgG e IgM], altri agenti patogeni [p. es., parvovirus B19 umano, virus varicella-zoster], rosolia, cytomegalovirus, herpes simplex)

- Test sierologici reaginici (Rapid Plasma Reagin [RPR])

- Ormone stimolante la tiroide, e se anomalo, T4 libera (tiroxina)

- Test del diabete (HbA1C)

- Esame della placenta

- Test tossicologici

L'esame per la trombofilia ereditaria è controverso e non è raccomandato di routine.

L'associazione tra natimortalità e trombofilia ereditaria non è chiara ma non sembra essere forte, fatta eccezione per la possibile mutazione del fattore V Leiden. I test (p. es., per il fattore V di Leiden) possono essere considerati quando vengono rilevate gravi anomalie nella placenta, si verifica una restrizione della crescita intrauterina o se la donna ha un'anamnesi personale o familiare di malattie tromboemboliche.

Spesso non è possibile determinarne la causa.

Il caso: I genitori di un piccolo nato morto citano in causa l’ospedale

I genitori avevano convenuto in giudizio avanti il tribunale di Verbania la Asl dell’ospedale dove si era verificato il fatto per ottenere il risarcimento dei danni non patrimoniali subiti iure proprio in conseguenza della morte del feto portato in grembo dalla mamma, avvenuta alle prime ore del mattino del 30 dicembre 2012.

In particolare, essi attribuivano la causa dell’esito infausto della gravidanza all’omessa diagnosi di ipossia fetale e all’omesso trattamento terapeutico, nonché ai ritardi imputabili agli operatori sanitari, i quali non avevano eseguito prontamente il taglio cesareo che, con elevata probabilità, avrebbe evitato la sofferenza del feto e la sua morte.

La partoriente infatti, giunta alla trentunesima settimana di gestazione, in seguito all’improvvisa comparsa di contrazioni e perdita di liquido amniotico, si era recata all’ospedale: qui i sanitari, dopo aver monitorato il battito cardiaco fetale, avevano disposto il trasferimento della paziente in un altro presidio ospedaliero dove, riscontrato un grave peggioramento delle condizioni cliniche della nascitura, veniva data alla luce una bambina già morta.

II giudice di primo grado aveva disposto una consulenza tecnica medico-legale che aveva evidenziato profili di negligenza e imperizia a carico dei sanitari di entrambi i nosocomi, nonché elevate probabilità di sopravvivenza della nascitura, ove il parto cesareo fosse state eseguito tempestivamente.

Di qui, con sentenza del 2017, la condanna dell’Asl a corrispondere a titolo di risarcimento le somme di 120mila euro alla madre, centomila euro al padre e trentamila euro per il fratellino.

Il tribunale piemontese, qualificata la domanda come richiesta di risarcimento dei danni non patrimoniali “per perdita del frutto del concepimento”, aveva adottato, come base di calcolo, i parametri delle tabelle di Milano per l’anno 2014 (data di proposizione della domanda) per  la  perdita  del rapporto parentale; aveva poi operate “le  opportune decurtazioni” in  ragione del fatto che, da un  lato, tali parametri si riferivano all’ipotesi di un figlio nato vivo e che, dall’altro, i genitori non avessero fornito la prova di indici di particolare gravità o peculiarità del fatto idonei a giustificare la personalizzazione del risarcimento; aveva, infine, ritenuto che la mamma fosse ancora fertile e, dunque, nella condizione di avere altri figli.

I genitori avevano quindi proposto appello avanti la Corte d’appello di Torino lamentando l’esiguità del risarcimento, ma i giudici di seconde cure avevano respinto il gravame “per carenza dei requisiti imposti dall’art. 342 cod. proc. civ.” ed in particolare “di quello della cd autosufficienza, quantomeno per quel che concerne un profilo essenziale (appunto il “quantum” della condanna richiesta nei confronti dell’Asl) della statuizione in riforma di quella resa dal precedente giudice”, ritenuta corretta.

La mamma e il papà, tuttavia, non si sono dati per vinti e hanno proposto ricorso anche per Cassazione articolato in sei motivi. Tra le varie doglianze, i genitori hanno lamentato che la Corte territoriale avesse definito generica la domanda risarcitoria proposta, in quanto priva dell’indicazione specifica e puntuale della somma pretesa, non ritenendo sufficiente la descrizione degli elementi fattuali dedotti ai fini della stima del danno.

Ancora, per loro i giudici di secondo grado avrebbero completamente travisato il contenuto dell’atto d’appello, ritenendo che la domanda fosse esclusivamente diretta a conseguire una più cospicua liquidazione del danno, mentre gli appellanti si dolevano dell’incompletezza dell’istruttoria del giudizio di primo grado, all’esito del quale essi non erano stati messi in condizione di provare  alcuni dei fatti costitutivi della pretesa, e segnatamente la reale natura e la effettiva consistenza dei danni patiti”.

Il riconoscimento della sofferenza interiore

I ricorrenti lamentavano, inoltre, il fatto che la Corte d’Appello avesse qualificato il panico, gli incubi e il mutamento delle abitudini di vita, conseguenti alla morte del feto in utero, quale danno assolutamente avulso rispetto alla domanda di risarcimento dei danni non patrimoniali patiti per la “perdita del frutto del concepimento. Tali circostanze, in realtà, non erano dirette ad ampliare l’oggetto della pretesa rispetto al “thema decidendumposto con l’atto di citazione, ma costituivano “i fatti materiali dai quali ricavare la prova della sofferenza morale” patita, limitandosi a precisare l’oggetto del petitum, senza introdurre alcuna domanda nuova.

I genitori avevano prospettato queste doglianze anche come violazione degli artt. 1223 e 2059 cod. civ., ipotizzata nella parte in cui la Corte territoriale aveva ritenuto che, testuali parole, “altro sarebbe il danno non patrimoniale causato dalla perdita del frutto del concepimento, e ben altro sarebbe invece il danno consistente negli strascichi che quel lutto abbia lasciato nell’animo dei protagonisti“, finendo così per confondere i fatti principali, costitutivi della domanda (da allegare con l’atto introduttivo) e i fatti secondari che, al contrario, possono essere dedotti con le richieste istruttorie.

Nel caso di specie, i fatti posti a fondamento delle richieste istruttorie formulate con la memoria ex art. 183, comma 6, n.2), cod. proc. civ. si identificavano nella concreta modalità di manifestazione del pregiudizio non patrimoniale (di tipo morale) patito e correttamente prospettato con l’atto di citazione.

Diversamente, si sarebbe finito per dare all‘art. 183 cod. proc. civ. un’interpretazione non compatibile con i principi costituzionali e riconosciuti dalla CEDU (nello specifico, l’art. 6 che sancisce il diritto all’effettività della tutela giurisdizionale).

I ricorrenti hanno poi censurato la sentenza impugnata, per violazione del giudicato, anche laddove aveva circoscritto la richiesta risarcitoria al solo “danno da perdita del frutto del concepimento”, discostandosi dalla qualificazione data dal prime giudice nel senso di domanda di risarcimento “generale” e dunque onnicomprensiva; hanno criticato il fatto che la Corte territoriale avesse ritenuto che le quattro ore di ansia ed agonia patite dalla puerpera nell’attesa del parto cesareo costituissero un “antefatto” rispetto alla morte del feto, e come tale “irrilevante ai fini della quantificazione del risarcimento del danno”.

Hanno censurato la decisione dei giudici di seconde cure di ridurre il risarcimento sul presupposto che la mamma avrebbe potuto comunque avere altri figli, essendo in età ancora fertile; infine si dolevano del fatto che il giudice di merito avesse operato una liquidazione meramente astratta del danno non patrimoniale da essi patito senza considerare (ne dare la possibilità di provare) le specificità del caso concrete, che avrebbero giustificato la personalizzazione del risarcimento.

Ebbene, per la Suprema Corte i primi due motivi sono fondati, con assorbimento degli altri.

Secondo la Cassazione, la Corte di merito ha “erroneamente respinto l’appello con declaratoria di inammissibilitàed è giunta a tale conclusione “scrutinando prioritariamente ed atomisticamente il terzo motivo di gravame, per poi trarre conclusioni estese all’intera impugnazione; gravando illegittimamente gli appellanti dell’onere di specificare, in modo preciso e puntuale, l’entità dei singoli aumenti pretesi rispetto alla liquidazione equitativa operata dal primo giudice; concludendo nel senso che l’omessa indicazione di cui al punto precedente impedisse alla Corte di pronunciarsi sul petitum risarcitorio, non essendo stata posta nella condizione di “valutare causa cognita l’eventuale sussistenza di errores in iudicando da cui sarebbe stata, secondo la prospettazione  di parte, affetta la sentenza appellata, e quindi, quale corollario, neppure di porvi rimedio in conformità alle argomentazioni della parte interessata”, che appunto non sarebbero state delineate”.

Secondo i Giudice della cassazione, queste affermazioni non sono conformi al diritto, ponendosi “in patente contrasto con la consolidata giurisprudenza di questa Corte regolatrice”.

La Cassazione chiarisce perché e, per la mancata applicazione di quali principi di diritto, la Corte territoriale abbia errato nel “dichiarare inammissibile l’appello sul rilievo del difetto di autosufficienza dello stesso” e anche come sia parimenti “errata la ragione posta a fondamento dell’affermazione che gli appellanti fossero tenuti a specificare, in modo preciso e puntuale, l’entità dei singoli aumenti pretesi rispetto alla liquidazione equitativa operata dal primo giudice”.

La perdita del frutto del concepimento è un danno da perdita del rapporto parentale

Ma ciò che più preme è quanto scrive la Suprema Corte relativamente al terzo motivo di doglianza.

Secondo i giudici, la Corte territoriale ha qualificato “del tutto illegittimamente” tutti gli aspetti della sofferenza patita dalla gestante (il panico, gli incubi notturni) e il mutamento delle abitudini di vita conseguenti alla morte del feto in utero, quale danno “assolutamente avulso rispetto alla domanda di risarcimento dei danni non patrimoniali patiti per la perdita del frutto del concepimento”.

Questa censura risulta pienamente  fondata, “dal momento che quello che la sentenza impugnata definisce, circoscrivendolo nella sua reale dimensione funzionale – per vero, riduttivamente ed impropriamente –  come danno da perdita del frutto del concepimento, altro non è se non un vero e proprio danno da perdita del rapporto parentale, avendo la Corte territoriale  omesso del tutto di considerare come anche la tutela del concepito abbia fondamento costituzionale“, rilevando in tale prospettiva non solo la previsione della tutela delta maternità sancita dall’art. 31, secondo comma, della Costituzione, ma, più in generale, quanto stabilito dall’art. 2 Cost., norma “che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, fra i quaIi non può non collocarsi, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica del concepito”.

Vanno riconosciuti sia il dolore interiore sia le ricadute sulla vita quotidiana

La pronuncia impugnata, evidenziano ancora i giudici della Corte di Cassazione, si pone, per altro verso, “in patente ed insanabile contrasto con i principi affermati dalle sezioni unite di questa Corte in tema di rapporti tra mutatio libelli e la sua semplice emendatio, una volta accertati ed enucleati fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio. Andranno, pertanto, applicati, sul punto, i principi ripetutamente affermati da questa Corte, che non solo ha ritenuto legittimati i componenti del consorzio familiare a far valere una pretesa risarcitoria che trova fondamento negli artt.  2043 e 2059 cod. civ. in relazione agli artt. 2, 29 e 30 Cost., nonché, ai sensi della norma costituzionale interposta costituita dall’art. 8 CEDU, all‘art. 117, comma 1, Cost., ma ha anche chiarito che pure tale tipo di pregiudizio rileva nella sua duplice e non sovrapponibile dimensione morfologica “della sofferenza interiore eventualmente patita, sul piano morale soggettivo, nel momento in cui la  perdita del congiunto è percepita nel proprio vissuto interiore, e quella, ulteriore e diversa, che eventualmente si sia riflessa, in termini dinamico­ relazionali, sui percorsi della vita quotidiana attiva de soggetto che l‘ha subita”.

Panico, incubi e mutamento delle abitudini non sono un “danno avulso”

Aspetti come il panico, gli incubi e il mutamento delle abitudini non sono un danno avulso rispetto alla domanda di risarcimento formulata ex art. 2059 c.c.“; infatti nei casi come questi, molto spesso, la sofferenza morale, allegata e poi provata anche a mezzo di presunzioni semplici, costituiscono l'aspetto più significativo di tale tipo di danno.
Il risarcimento del danno
La stima del pregiudizio non patrimoniale da perdita del rapporto parentale nel nostro ordinamento è demandata ad un sistema equitativo puro, sostanzialmente fondato sulla valutazione discrezionale del giudice di merito.
Tuttavia, per rendere il più possibile omogenee e prevedibili le decisioni dei Tribunali, si è sempre cercato di utilizzare criteri standardizzati di quantificazione, tanto che la Corte di Cassazione, sin dal 2011 (sentenza n. 12408/2011), ha individuato nella “tabella” elaborata dal Tribunale di Milano un generale “parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c., salvo che non sussistano in concreto circostanze idonee a giustificarne l’abbandono“, così attribuendo alla stessa la valenza di criterio guida a livello nazionale per la quantificazione del pregiudizio da perdita del rapporto parentale.

La tabella milanese, in relazione a ciascun rapporto di parentela, prevede una forbice di valori risarcitori, stabilendo un importo minimo e di un importo massimo, per consentire di graduare la quantificazione del risarcimento avendo riguardo a tutte le circostanze del caso concreto, ivi compresa la “qualità ed intensità della relazione affettiva che caratterizzava il rapporto parentale con la persona perduta“.

In caso di morte del neonato e del feto, pertanto, la liquidazione del danno viene di regola operata in applicazione delle tabelle milanesi.

A chi rivolgersi

Lo Studio dell'Avvocato ANDREA COVA è specializzato in risarcimento danni da errore medico e responsabilità sanitaria e segue regolarmente casi in tutta Italia.

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