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Il danno biologico terminale


La nozione di danno biologico terminale è una figura di creazione giurisprudenziale.

Si tratta di un danno alla persona in cui la vittima percepisce uno stato di grande sofferenza fisica e mentale nell'intervallo di tempo intercorrente tra la lesione della salute e il successivo ed inesorabile spegnersi delle funzioni vitali fino alla inevitabile morte.

È un danno che non si identifica né con il danno biologico, in quanto abbraccia tutte le conseguenze che derivano dalla presa di coscienza da parte del soggetto della inesorabile fine, né con il danno morale (di diverso avviso invece Cass. civ., sez. lav., 27 maggio 2009, n.12326 e  Trib. Ravenna, sez. lav., 21 giugno 2011) in quanto attiene ad una sfera più ampia rispetto alla lesione psichica, oggetto di consulenza medico legale e non è riconducibile alla sola sofferenza immediata e diretta al pregiudizio subito. 

Il danno biologico terminale postula l'esistenza di una patologia medicalmente accertabile, la quale, per potersi definire “apprezzabile”, deve progredire in un lasso di tempo ragionevole che, purtroppo, progredisce fino all'evento morte.

La salute (da qui la distinzione dal bene vita, secondo l'orientamento maggioritario) non solo non migliora, ma peggiora fino al sopraggiungere dell'evento morte.

Si tratta di un danno conseguenza poiché, nel caso di specie, non rileva il fatto che si sia verificato l'evento (il fulcro non è “l'evento lesivo in sé” -distinzione con il concetto di danno evento, ormai abbandonato da tempo dalla giurisprudenza di legittimità, ma con diversa rilettura per quanto concerne “il ristoro del danno da perdita della vita (che) costituisce in realtà ontologica ed imprescindibile eccezione al principio di risarcibilità dei soli danni conseguenza” e, deve essere “in realtà propriamente valutata ex ante e non già ex post rispetto all'evento che la determina” - Cass. civ. n. 1361/2014 ), bensì le “conseguenze pregiudizievoli” per il soggetto, che dall'evento generatore dell'illecito derivano.

Il “fattore tempo” diviene elemento di primaria importanza al fine di riconoscere la sussistenza e il conseguente risarcimento del danno biologico terminale. Prova ne è il fatto che quando i concetti di “lucidità” e “coscienza” della lesione cedono il posto al concetto di “intensità” della sofferenza, ecco che allora rientriamo nella diversa, seppur consimile sotto certi aspetti, figura del “danno catastrofico”: quel che dunque viene risarcito non è, come detto, né la perdita del diritto alla vita (danno tanatologico), né il danno biologico, la cui sussistenza presuppone che la vittima sia in vita e vitale, ma un danno non patrimoniale identificato con il pregiudizio alla salute patito dalla vittima stessa che deve essere liquidato come una invalidità temporanea “maggiorata” da calcolarsi in base alla durata e lucidità dell'agonia patita dalla vittima (Cass. civ., 17 gennaio 2008 n. 870), atteso che detto danno è, nella sua identità, di massima intensità (Cass. civ., 14 maggio 2012 n. 7499).

Si tratta di un danno proprio della vittima primaria che, una volta entrato a far parte del suo patrimonio (art. 458 c.c.), si trasmette iure hereditatis ai superstiti (C. cost., 27 ottobre 1994, n. 372; Cass. civ., 16 marzo 2012 n. 4229).

Non è in discussione la sussistenza e il ristoro della voce “danno biologico terminale”, quanto il fatto che la brevità del periodo di sopravvivenza ha indotto la giurisprudenza ad escludere il riconoscimento e il conseguente risarcimento laddove risulti non apprezzabile, ai fini risarcitori, il deterioramento della qualità della vita a cagione del pregiudizio alla salute.

Si è, cioè, ritenuto che in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte la sofferenza non sia suscettibile di degenerare in danno biologico.

E, infatti, contrariamente alla fattispecie inerente il “danno catastrofico”, ove rileva l'intensità della sofferenza patita dal danneggiato tra lesione e morte, la problematica di come quantificare il lasso di tempo idoneo a far sorgere, in capo al de cuius prima e ai prossimi congiunti poi, il diritto al risarcimento e, una volta stabilito, come commisurare il quantum risarcitorio, è elemento essenziale ai fini della riconoscibilità o no del danno biologico terminale maturato autonomamente in capo alla vittima.

Sul punto, la giurisprudenza non ha fornito alcun parametro né alcun dato oggettivo cui fare riferimento e, quindi, ogni caso va valutato a sé stante.

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